Pergolizzi

La sicurezza sussidiaria come risposta alla pirateria marittima, le private military and security companies

Dott. Vincenzo Pergolizzi

Attuale Direttore Tecnico Lazio ed Antipirateria. Coordinatore Filiale di Roma e Genova presso VEDETTA 2 MONDIALPOL SPA. Già Ufficiale dell’Arma dei Carabinieri Paracadutisti

Formazione:

Università degli Studi di Roma UnitelmaSapienza. Laurea in Scienze dell’Amministrazione e Sicurezza.

ISFOA Libera Università di Diritto Internazionale.Laurea in Scienze della Sicurezza, Scienze Industriali.

Università degli Studi RomaTre. Master di Security Manager.

Università di Roma Tor Vergata. Master di Esperto in Sicurezza ed Igiene del Lavoro

 

Questo studio intende aprire una finestra sul comparto della vigilanza privata, con l’obiettivo di focalizzare i problemi normativi che di fatto, oggi in Italia, limitano lo sviluppo di questo importante settore. La sicurezza deve essere considerata come un diritto sociale costituzionalmente garantito, per questo è chiara l’esigenza di un nuovo quadro normativo, che consenta agli istituti di vigilanza di implementare le attività di sicurezza sussidiaria già in essere. La regolamentazione dei servizi di "close protection" e di "sicurezza all'estero" sarebbe un ottimo primo passo mentre lo sviluppo di una “exit strategy” basata su 3 direttrici:

  1. Ampliare il mercato di riferimento;
  2. Proseguire nel processo di formazione, prevedendo l'intervento delle Regioni con lo stanziamento di fondi interprofessionali europei;
  3. Costituire una cabina di regia interministeriale, per la definizione del costo del lavoro e del controllo delle tariffe allo scopo di contrastare azioni di dumping.
Rappresenterebbe una risposta adeguata ad esigenze non più trascurabili.

Sud Sudan

Sudan: Nuove fiamme da braci vecchie di trent’ anni

Marco Tamburro

Omar Hassan Ahmad al-Bashir e il Sudan moderno

Omar Hassan Ahmad al-Bashir ha ricoperto il ruolo di capo di Stato del Sudan dal 1989 al 2019, quando è stato deposto con un golpe militare. Al-Bashirm salito anch’esso al potere tramite un colpo di stato militare nel 1989 a scapito del primo ministro Sadiq al-Mahdi, dopo che questi aveva avviato negoziati con i ribelli del Sud.

Fortemente ostile a qualsiasi negoziato per riconoscere l’indipendenza dell’odierno Sud Sudan, nel 1992 al-Bashir fonda il Partito del Congresso Nazionale, con lo scopo di non lasciare il potere e lavorare su una transizione politica che lo riconfermasse, come avvenuto fino al 2019. La storia di al-Bashir è caratterizzata da un accentramento costante del potere e da un’ostilità per le posizioni di compromesso che hanno causato la morte di milioni di persone, in particolare nelle regioni del Darfur e l’odierno Sud Sudan.

Paese, quest’ultimo, divenuto ‘’famoso’’ per le numerose missioni di supporto umanitario della comunità internazionale, necessarie per cercare di rispondere alle necessita basiche della popolazione. La tragedia che investì questi territori causò la fuga di milioni di persone che trovarono rifugio nelle vicine Etiopia, Kenya e Ciad ma che riuscirono a sopravvivere solo grazie ad un enorme sforzo della comunità internazionale che si fece carico di tutti i nuovi rifugiati nei paesi di destinazione.

Il Darfur

Dal 2003, il Darfur è stato teatro di un conflitto che ha visto contrapposta la maggioranza della popolazione. Divisa tra tribù sedentarie, e la minoranza nomade, proveniente dalla penisola araba, maggioritaria nel resto del paese e che gode dell’appoggio del governo centrale, accusato a sua volata da entrambe le fazioni di tollerare le feroci scorribande dei janjāwīd (i “demoni a cavallo”). Dal 1985, e ancor di più dal 2002, il governo centrale ha strumentalizzato queste controversie, applicando una strategia per cercare di dividere le etnie e renderle il più debole possibile. Durante la presidenza di Al Bashir, si registrano diversi scontri tra le milizie janjāwīd e altri gruppi ribelli come l’Esercito di liberazione del Sudan (SLA) e il Movimento per la giustizia e l’uguaglianza (JEM) che rappresentava la regione del Darfur.  

Altri aspetti di carattere climatico legati a una drammatica siccità con conseguente desertificazione del suolo e carestia hanno presentato il Darfur all’opinione pubblica internazionale, come una delle più urge ti e complesse situazioni di intervento umanitario a cui rispondere.

La guerra per il Sud Sudan

Se per il Darfur si parla di un problema di etnie, per il Sud Sudan in gioco esiste un aspetto economico ancora più importante legato al petrolio. Partendo dalle posizioni estreme di Bashir sulla negazione di uno stato sudsudanese, la regione è stata teatro di due guerre civili, combattute tra l’esericto governativo e l’Esercito di Liberazione del Popolo del Sudan (ELPS).

Durante il conflitto, come misura estrema e disumana per indebolire l’ELPS, il governo centrale sudanese si è disinteressato completamente della situazione umanitaria dei sud sudanesi, ignorando la mancanza di importanti infrastrutture civili, incoraggiando la fuga di molti profughi e la devastazione di aree produttive con azioni militari.

Si stima, oltre alle vittime di guerra, un totale di 2.5 milioni di persone decedute per malnutrizione, e 5 milioni di rifugiati presenti in altri Paesi.

Nel gennaio 2011 i cittadini del Sudan del Sud decidono tramite un referendum se separarsi o meno dal resto del Sudan e dichiararne l’indipendenza. L’affluenza fu elevatissima, circa il 96% degli aventi diritto e a fine mese i risultati mostrarono come la popolazione, con il 98,81% di voti favorevoli fosse nettamente a favore dell’indipendenza.

A seguito del risultato, il 9 luglio 2011 il Sudan del Sud, malgrado non vengano risolte alcune controversie con il Nord, si dichiara Stato sovrano e indipendente. Il principale punto di discordia è la ripartizione dei proventi del petrolio, i cui giacimenti si trovano all’80% nel Sudan del Sud e rappresentare un incredibile potenziale economico in un’area fra le più povere al mondo, mentre la maggior parte degli impianti di raffinazione si trova al Nord.

Abyei, regione contesa in questa disputa, deciderà con un referendum a quel ei due stati vorrà appartenere. Oltre che da diatribe territoriali, l’instabilità nel neonato Sud Sudan proviene anche da faide interne alla classe politica dirigente. Con un tentativo di colpo di Stato nel dicembre del 2013 le forze leali al presidente Salva Kiir, di etnia Dinka, si sono scontrate con quelle fedeli all’ex vicepresidente Riech Machar, di etnia Nuer, esonerato a luglio a causa dei forti contrasti con Kiir. A dicembre 2014, almeno 50.000 persone erano state uccise nel corso di questo conflitto etnico.

La Corte Penale Internazionale e ‘’l’incidente sudafricano’’

Nel luglio 2008, il procuratore della Corte penale internazionale, Luis Moreno Ocampo, ha accusato al-Bashir di genocidio, crimini contro l’umanità e crimini di guerra. La situazione in Darfur è stata analizzata dalla CPI molto attentamente e per molto tempo, fino alla decisione del 2008 che portò a spiccare il mandato di cattura. Il 4 marzo 2009, la Corte ha emesso un mandato di arresto per al-Bashir per crimini di guerra e crimini contro l’umanità, ma stabilì anche che non vi fossero sufficienti prove per perseguirlo per genocidio. Successivamente, il 12 luglio 2010, tale sentenza venne modificata  e la Corte emise un secondo mandato, contenente tre distinti capi d’accusa di genocidio. I capi d’accusa non affermano che Bashir avesse preso parte personalmente a tali attività, ma sostengono che sia “sospettato di essere penalmente responsabile, in quanto co-protagonista indiretto”. Alla decisione del tribunale si sono opposti l’Unione Africana e la Lega Araba.

Il nuovo mandato, come il primo, è stato consegnato al governo sudanese, che non ha riconosciuto né il mandato né la Corte penale internazionale. Il Sudan fa parte della lunga lista di Paesi che non riconoscono la Corte, insieme a Libia, Somalia, Giordania, Turchia, Egitto, Sud Sudan, Gibuti, Eritrea, Pakistan, Algeria, Iraq, Israele, Arabia Saudita, Kuwait, Oman, Libano, Bahrein, Qatar, Emirati Arabi Uniti e Stati Uniti.

Nel giugno del 2015, il Presidente del Sudan si reca insieme ad altri leaders africani in Sud Africa, per il summit dell’Unione Africana. Il 14 giugno 2015, La Corte penale internazionale esorta il Sudafrica ad arrestare Al Bashir; in un primo momento, l’imbarazzo e la pressione sul Sud Africa sono fortissimi, e la giustizia sudafricana vieta a Bashir di lasciare il paese finché non si attueranno ulteriori verifiche e si sarà pronunciata sulla richiesta di arresto. Il 15 Giugno arriva la decisione dei giudici dell’alta corte sudafricana che ordina l’arresto del presidente Omar al Bashir. Sfortunatamente, il verdetto viene emesso qualche ora dopo la partenza di Bashir dall’aeroporto di Johannesburg, in violazione del precedente ordine; da qui una polemica che coinvolge varie autorità sudafricane, con i giudici amareggiati dal fatto che le autorità di polizia non hanno rispettato l’ordine di trattenere Bashir in Sudafrica.

Le proteste del 2018

A partire dal dicembre 2018, al-Bashir affronterà un diffuso malcontento che porterà la piazza a chiedere la sua rimozione dal potere. Le proteste antigovernative investivano diverse città e paesi del Sudan, la scintilla partita dall’aumento del costo del pane e del carburante, si è poi allargata alla richiesta di maggior trasparenza, alternanza politica e alla conseguente conclusione della trentennale presidenza di al-Bashir.

In meno di una settimana, le manifestazioni, iniziate il 19 dicembre nella città di Atbara, si sono rapidamente diffuse in tutto il Paese, compresa la capitale Khartoum.

L’11 aprile 2019, la situazione diventa insostenibile ed è l’elite militare a prendere in mano il potere, sollevando Bashir con un colpo di Stato militare. Nel settembre dello stesso anno, Bashir è sostituito dal Consiglio militare di transizione che trasferisce il potere esecutivo a un Consiglio di sovranità misto civile-militare e a un primo ministro civile, Abdalla Hamdok. Due mesi dopo, l’alleanza “Forze della Libertà e del Cambiamento” dichiarano che Bashir sarebbe potuto essere trasferito alla Corte penale internazionale. Nel dicembre dello stesso anno è stato condannato per corruzione a due anni di carcere. Inoltre, nel luglio 2020, un ulteriore processo è stato istruito contro di lui per il suo ruolo nel colpo di Stato che lo ha portato al potere nel 1989. Nel 2021, Al Bashir è consegnato dal governo sudanese all’Aja.

Il Consiglio militare di transizione (TMC)

Il Consiglio militare di transizione (TMC), rappresenta la giunta militare che governava il Sudan dalla rivoluzione d’aprile del 2019. Il 17 luglio il TMC formalmente guidato da Abdel Fattah al-Burhan, Ispettore delle Forze armate e l’alleanza Forze della Libertà e del Cambiamento (FFC) firmano un accordo di cooperazione politica. In questo scenario di fragile stabilità politica inizia a farsi largo Hamdan Dagalo, conosciuto come Hemetti, vice leader del Consiglio, comandante delle (RSF) Forze di supporto rapido e di conseguenza detentore del reale potere all’interno del Consiglio. A capo dei Janjaweed durante la guerra in Darfur , è stato nominato generale di brigata nelle nuove forze di supporto rapido (RSF) dal governo 1989-2019 di Omar al-Bashir. Dal 10 giugno 2019 , è un latitante accusato di crimini di guerra , crimini contro l’umanità e genocidio da parte della CPI.

La RSF è stata creata nel 2013 sotto la guida di Hemetti, da ex gruppi di combattenti Janjaweed, molti dei cui leader e sostenitori ( Ahmed Haroun , Ali Kushayb , Abdel Rahim Mohammed Hussein , oltre ad al-Bashir) sono stati incriminati per guerra crimini della CPI.

 Le RSF si sono rivelate essere l’organizzazione immediatamente successiva alle milizie janjāwīd che una parte dei vertici militari mira a far assorbite all’interno della struttura militare statale e conseguentemente legittimare.

Gli accordi del 2019 prevedevano il trasferimento dei poteri a un nuovo organismo noto come Consiglio di sovranità e ad altri organi statali di transizione. Nonostante la vittoria del fronte per il cambiamento, il 2019 è contraddistinto da varie tappe di incertezza e instabilità, come dimostrano varie dichiarazioni del Governo rispetto ad elementi di spicco sudanesi che rifiutano il nuovo ordine, affermando che ‘abbiamo sventato più di un colpo di stato e i responsabili sono stati arrestati’’.

Il 12 luglio 2019, Gamal Omar del TMC ha riferito di quattro tentativi di colpo di Stato solo nei primi 7 mesi del 2019 e che a seguito di essi dodici ufficiali dell’esercito e del National Intelligence and Security Service (NISS) sono stati arrestati.

La ‘’nuova guerra’’ del 2023

L’instabilità è la condizione che ha maggiormente contraddistinto gli ultimi 4 anni di transizione del paese guidato da una leadership mista civili/militari. La continua trattiva tra le parti sul futuro della leadership del paese è stata la condizioni che ha si permesso lenti progressi nello sviluppo del territorio ma che ha anche esasperato gli animi e irrigidito le posizioni di ambo le parti, arrivando nel febbraio di quest’anno alla rottura definitiva dei rapporti tra esse.

Se l’FFC ha rappresentato, sin dal 2019, la speranza del cambiamento per i sudanesi, i componenti del TMC hanno visto la rivoluzione sudanese come un’opportunità per destituire Al Bashir che ormai aveva fatto il suo tempo. Contestualmente non hanno di certo messo, fra le priorità, gli obiettivi legati ad una democratizzazione del Paese e un miglioramento delle condizioni della povera popolazione sudanese. Durante il colpo di stato, Hemetti e Burhan hanno formato, progressivamente, un fronte comune per estromettere i civili alla guida del paese. Col passare del tempo, tuttavia, Hemetti ha costantemente denunciato il colpo di stato. Anche di recente si è schierato con i civili – quindi contro l’esercito nelle trattative politiche – bloccando le discussioni e quindi ogni soluzione alla crisi in Sudan. Per giorni i civili e la comunità internazionale hanno dovuto accettare un nuovo rinvio della firma dell’accordo politico che avrebbe dovuto far uscire il paese dall’impasse – a causa delle divergenze tra i due generali. Già nel mese di marzo, non c’erano prospettive concrete e positive sulla firma dell’accordo per aprire il processo politico che avrebbe dovuto riportare i civili al potere in Sudan.

La tensione si è progressivamente avvertita, e per giorni tra la popolazione della capitale Khartoum si sono rincorse voci di un imminente scontro tra i due campi. Già il 13 Aprile l’esercito aveva denunciato un “pericoloso” dispiegamento di paramilitari a Khartoum e in altre città senza “il minimo coordinamento con il comando delle forze armate”.

Le divergenze tra i due uomini forti del Sudan riguardano soprattutto il futuro dei paramilitari. Il nodo riguarda soprattutto quello del ruolo delle forze armate e la loro composizione: fra i punti chiave della transizione democratica, esiste la richiesta dell’integrazione delle RSF nelle truppe regolari: l’esercito non ha mai del tutto rifiutato questo compromesso, ma alle sue condizioni e con l’obiettivo velato di limitarne l’integrazione dei suoi effettivi. Hemetti, invece, rivendica un’ampia inclusione di tutti gli RSF e, soprattutto per lui stesso, un ruolo centrale all’interno dello stato maggiore. Come gia evidente in altri paesi del Nord Africa, l’esercito ha sempre svolto un ruolo fondamentale nel Paese e detiene buona parte del potere politico ed economico.

Dalla parte della società civile, i comitati di resistenza e l’Associazione dei professionisti sudanesi, all’ origine della rivoluzione del 2019, ripetono di rifiutare qualsiasi accordo con i soldati golpisti e infatti non hanno fermato, regolarmente, le manifestazioni contro l’attuale regime di lunga transizione militare.

Sembra quindi chiaro che il punto chiave sia sciogliere il nodo delle forze armate, sia da un punto di vista di composizione interna (questione degli RSF), sia sul piano politico, per quel ruolo fondamentale che ha sempre visto i militari sostenere il dittatore: una netta separazione di poteri sancita dalla fine della transizione e dalla  dal potere politico porterebbe il paese sul cammino della democrazia, metterebbe fine al regime dei golpisti e, soprattutto, ridarebbe fiato all’economia che sta vivendo una crisi senza precedenti e aprirebbe, nuovamente, la strada a interventi delle istituzioni finanziarie internazionali necessari per avviare riforme fondamentali per la vita stessa del paese. La comunità internazionale, infatti, ha chiesto il ritorno alla transizione per riprendere gli aiuti al Sudan, cessate il fuoco e salvaguardare i civili. Se le parti in causa avessero raggiunto un accordo, la tabella di marcia prevedeva l’entrata in vigore della Costituzione provvisoria e la formazione di un nuovo governo civile, già entro questo mese, invece di mancare un’occasione storica e piombar in un nuovo conflitto con molte vittime civili anche straniere, che porterà sgradite conseguenze aii rapporti internazionali per il Sudan.

Marco Tamburro

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Cabo Delgado: da conflitto locale a conflitto internazionale cronico?

Marco Tamburro

Pochi giorni fa, durante il summit US-Africa, il presidente Nyusi si e’ espresso a favore di ‘’una soluzione africana per un problema africano’’, quello di Cabo Delgado, ma preoccupa lo stato delle operazioni attuali e il sostanziale immobilismo a livello di risultati militari

Nel 2023, il numero della poplazione del nord del Mozambico che necessitera’ di aiuto umanitario aumentera’ a 2.1 milioni secondo il piano di risposta umanitaria delle Nazioni Unite (HRP, humanitarian response plan 2023), con un bisogno di finanziamento di piu’ di 500 milioni di dollari.

Sfiorando l’1.5 milioni di dislocati interni, il conflitto non sembra avere una soluzione a breve termine e, anche se i lavori per l’infrastruttra per l’estrazione e esportazione del gas nella zona di Afungi dovessero ripendere, non sembra esserci una soluzione politica al conflitto.

Se nel 2021 l’intervento del Rwanda aveva fatto registrare grandi progressi militari, gli attacchi nel sud di Cabo Deglado e dei rapidi attacchi a villagi remoti nella Provincia di Nampula hanno ormai portato il conflitto in una fase di confronto militare permanente, non limitato ad aree particolari ma esteso a tutto il Nord, e ad una serie di risultati positvi per l’una e per l’altra parte. L’impegno del contingente SAMIM dei Paesi della SADEC e il contingente rwandese non sembrano essere piu’ sufficienti nel contrastare le tattiche di guerriglia dell’ISIS Mozambico.

Questa escalation di attacchi e la sostanziale impreparazione delle forze regionali sudafricane sembrano portare il conflitto ad assumere le caratteristiche di una crisi cronica, alla viglia del sesto anno di crisi.

Accanto ad una risposta militare inadeguata, esiste ache una cronica mancanza di leadership delle autorita’ nazionali rispetto alle soluzioni politiche del conflitto, senza una vera e propria leadership decentralizzata che riesca ad avere un approccio chiaro e metodlogico coinvolgendo tutti i vari attori del conflitto; il Governo sembra solo perseguire l’obiettivo principale della ripresa delle attivtia’ della TOTAL, dopo essersi fregiato del risutlato della prima esportazione ufficiale di gas dagli impianti di Nampula, per il progetto, mai interrotto, gestito da ENI e Exxon Mobile.

Per l’estremo nord, la soluzione sembra tutt’altro che vicina, e la politica internazionale non sembra avere ancora Cabo Delgado al centro dell’agenda, ne’ politcia ne’ militare; ovviamente, anche questa crisi ‘’glocale’’ e’ offuscata dalla crisi ucraina che non puo’ che distogliere l’attenzione dalle altre guerre, sopratutto quelle piu lontane dallo scacchiere eurasiatico.

La domanda e’ che cosa ci si puo attendere er il 2023? Tentando di fare alcune ipotesi, lo scenario potrebbe: cambiare rispetto agli esiti del conflitto ucraino, nel caso di una soluzione, Cabo Delgado potrebbe guadagnare in visiblita’, esponendo il Paese ad una maggiore attenzione e maggiore aiuto, ma anche piu responsabilita’ del Governo, tenendo in considerazione anche il ruolo del Mozambico nel consiglio di sicurezza dell’ONU per un semestre; arrivare ad un impegno finanziario maggiore dell’UE, portando fondi direttamente per l’aumentare lo sforzo bellico del Rwanda e/o del contingente SAMIM; continuare in una sostanziale mancanza di leadership del Governo per la situazione del dislocati e confidare nel ruolo di assistenza tecnica e leadership tecnica delle varie agenzie UN e donatori internazionali.

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Targhe per allodole

Enrico Strina

Prosegue la tensione tra Serbia e Kosovo. L’ultimo episodio è quello dell’obbligo, imposto dal governo del premier kosovaro Kurti, di dover reimmatricolare le automobili di residenti sul territorio kosovaro con targhe kosovare, eliminando così la possibilità di poter circolare anche con targhe serbe.

È finita la pace a Mitrovica (se mai ce ne fosse stata una). È finita la pace sul territorio kosovaro. Non che sia una novità da queste parti: come dicono quasi tutti gli ex jugoslavi, per loro la la pace è semplicemente il momento in cui è assente la guerra. E pensare che il “momento felice” durava ormai da circa tre lustri: dopo la dichiarazione d’indipendenza del Kosovo, fortemente sponsorizzata e “nutrita” dai paesi occidentali (Usa in testa), nel neo-stato incastonato tra Serbia e Albania si respirava un’aria di calma apparente, pur sempre migliore dei venti di guerra e degli spari utilizzati come forma di minaccia contro il vicinato.

Il discorso sulle targhe, emerso a inizio a novembre 2022, affonda le sue radici nei difficili negoziati seguenti l’Accordo di Bruxelles del 2013: quasi dieci anni dopo Albin Kurti – premier fortemente indipendentista con una marcia che va più veloce anche dei paesi Nato che monitorano preoccupati la situazione – ha deciso di rispolverare questo mai completamente attuato (leggasi ben poco attuato) documento per risvegliare un po’ la situazione. L’Accordo prevede una progressiva “normalizzazione” (o “kosovizzazione” a seconda del punto di vista) dello Stato, all’epoca dichiaratosi indipendente da circa 5 anni. La “normalizzazione” interviene su alcuni aspetti burocratici e organizzativi del Kosovo: prescrive infatti il passaggio di tutto il territorio – a livello istituzionale – sotto il pieno controllo di Pristina. Tutte le enclave e i comuni del nord a maggioranza serba devono quindi a breve rinunciare anche alla possibilità di emettere documenti di identità e anche le targhe automobilistiche. Contemporaneamente, per far sì che i serbi possano mantenere un certo grado di autonomia, nell’Accordo di Bruxelles c’è anche la creazione di una Associazione di municipalità serbe, una specie di consorzio in cui le varie comunità della parte settentrionale del Kosovo possano dialogare e continuare a preservare le proprie specificità.

Qui si è creata la frattura: mentre Kurti ha continuato a spingere sul discorso targhe, forte dell’autorità governativa, la creazione dell’Associazione dei comuni di lingua serba è stato relegato nell’angolino delle cose da fare (forse) in futuro. A quel punto è iniziata la risposta della Srpska Lista, il partito della comunità serba del Kosovo: circa tremila tra sindaci, consiglieri comunali, assessori, dipendenti comunali di origine serba si sono dimessi nel giro di poche ore, lasciando scoperti interi municipi. Da Pristina è arrivata la subitanea indizione di nuove elezioni per rimpiazzare il personale dimessosi, contestate dalla parte serba, tanto che le votazioni (previste per il 18 dicembre scorso) sono state rinviate ad Aprile 2023.

Soltanto dopo un mese di empasse, all’inizio di dicembre, le due parti – aiutate dalla mediazione dell’UE – sono giunte a un compromesso temporaneo: Belgrado non rilascerà nuove targhe ai serbi del Kosovo, mandandole così a esaurimento. I kosovari non sanzioneranno chi girerà con le targhe serbe.

Il compromesso non ha però risolto le tensioni: i blocchi stradali presenti in molte città di lingua serba proseguono. A Mitrovica in particolare sono segnalate barricate e il ponte sull’Ibar è tornato ad essere un luogo nevrotico e pieno di veicoli blindati della KFOR e di pattuglie della polizia kosovara.

Descritta in questo modo, sembrerebbe un pigiare sull’acceleratore solo da parte kosovara, ma non è così.

Da qualche mese infatti anche il presidente serbo Vucic ha ricominciato a sventolare il fantasma della Risoluzione 1244. Utilizziamo la parola “fantasma” non a caso: la Risoluzione 1244 è datata 1999 e risale alla fine dei bombardamenti Nato contro Belgrado. Nella Risoluzione si sottolinea che, dopo aver liberato il territorio kosovaro, “un numero concordato di personale jugoslavo e serbo sarà autorizzato a ritornare per svolgere le seguenti funzioni: collegamento con la missione civile internazionale e con le forze internazionali di sicurezza presenti sul territorio, individuare/bonificare terreni minati, mantenere la presenza nei luoghi del patrimonio culturale serbo, mantenere la presenza nei principali valichi di frontiera”. Un testo assolutamente anacronistico oggi (a quasi 24 anni dalla sua scrittura), come si vede da molti termini oggi ormai decaduti (Jugoslavia?) e dalla stessa proclamazione dello stato del Kosovo. Sul fuoco della Risoluzione 1244 iniziano a spingere anche i media serbi: in particolare Radio Slobodna Evropa richiama sull’attuazione di questa e ogni tanto lancia “fondate ipotesi” su eventuali bozze di accordo tra UE e Kosovo in cui si dichiara un rapporto paritetico tra Kosovo e Serbia. I media dell’odio sono pronti a ricominciare con quella diffusione di fake news che ebbero un loro importante ruolo anche nel conflitto di inizio anni ‘90.

Le targhe, insomma, sono soltanto lo specchietto per le allodole di una situazione molto complessa e, non va trascurato, molto pericolosa in quel punto dell’Europa a metà tra Mediterraneo ed Europa orientale.

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Mozambico: Nampula, il nuovo volto del conflitto

Marco Tamburro

Come giá successo nel 2020 nella Provincia di Niassa, nuovi attacchi lampo minano le certezze e i successi militari del 2022 delle forze mozambicane e rwandesi, e rimettono in discussione la sicurezza nazionale

Il 6 settembre di quest’anno, perdeva la vita suor Maria Coppi nel villaggio di Chipene, durante un attacco lampo nel quale altre suore sono sfuggite ad un tentativo di rapimento. Suor Maria Coppi é la prima espatriata uccisa dopo le vittime dell’attacco di Palma di Marzo 2021, costato la vita ad almeno nove sudafricani. Questa volta, peró, il dato piu preoccupante é l’evolversi degli attacchi nella Provincia di Nampula, che si trasforma in un nuovo fronte della guerriglia portata dall’ISIS Mozambico. In precedenza, altri attacchi si erano registrati a ridosso del confine provinciale meridonale di Cabo Delgado, nei distretti di Memba e Erati; in queste zone, la popolazione si é dovuta, ancora una volta, dislocare per cercare riparo in comunitá piu grandi e meno isolate, nella speranza di trovare zone meno soggette ad attacchi lampo. I dislocati nella Provincia di Nampula salgono cosí a piú di 90.000, a cui si aggiungono i 945.000 di Cabo Delgado; come giá accaduto in passato, piccole cellule dormienti, probabilmente sovvenzionate dall’ISIS Mozambico, attaccano villaggi isolati e costringono le forze mozambicane ad aprire un nuovo fronte da pattugliare, con l’ulteriore difficoltá di non ricevere l’assistenza delle truppe rwandesi che si sono disimpegnate, sin qui, con maggiore efficienza a Cabo Delgado.

Verso la fine di settembre, esercito e polizia sembrano riuscire a garantire una parvenza di sicurezza che ha riportato a zero attacchi la situazione di Nampula delle ultime settimane; nonostante ció, ci si interroga sulla permeabilitá del territorio nord mozambicano a questo tipo di attacchi, studiati chiaramente per creare confusione e dare l’impressione di aprire ogni volta nuovi fronti. Su Cabo Delgado, questa dinamica si era giá osservata nella zona di Chiure-Ancuabe, quei distretti che per tutto il 2020-2021 erano stati considerati sicuri, e che poi hanno visto un’intensificazione degli attacchi ad agosto 2022, situazione che ha reso anche il sud di Cabo Delgado una zona a rischio. La percezione della popolazione é, di conseguenza, quella di non aver nessuna zona realmente sicura e non esposta a potenziali attacchi.

A questo punto, sembra ovvio che lo sforzo militare debba espandersi anche a queste nuove zone, accanto a nuovi bisogni umanitari che crescono, ed un lavoro di coesione sociale e investimenti nell’area che sembrano essere indispensabili per non far cadere i giovani vulnerabili nella rete del terrorismo e di guadagni facili.

Proprio ad inizio settembre, l’Alto Rappresentante per gli Affari esteri dell’UE, Joseph Borrell, visitava il Mozambico, e il 9 Settembre confermava un budget di 15M di euro approvato dall’UE per le forze militari SAMIM (Mozambico, Sud Africa, Botswana, Zambia, Lesotho) impegnate nel conflitto, che si aggiungono ai 35M di euro in quattro anni per le esercitaizoni e equipaggiamento. Si attende, inoltre, lo sviluppo dei rapporti col Rwanda e l’eventuale finanziamento anche per loro in modo da rafforzare la presenza nel nord del Mozambico.

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SADC e Rwanda operative: La necessità di un intervento internazionale per scongiurare una crisi regionale

Marco Tamburro

Mentre le truppe ruandesi e quelle mozambicane hanno riportato notevoli successi tra luglio ed agosto di quest’anno, le truppe SADC sono state dichiarate completamente operative solo a partire dal 2 settembre.

L’efficacia delle truppe ruandesi, in appoggio al Mozambico, nelle operazioni militari che si sono svolte tra maggio ed agosto, sembra essere di gran lunga superiore rispetto al supporto concreto dato dagli altri paesi SADC fino ad ora.

In effetti, i Paesi SADC hanno incontrato diverse difficoltà, inizialmente, nel trovare un accordo politico-militare soddisfacente per tutti i membri; la riluttanza del Mozambico ad avere troppe truppe stranieri sul proprio suolo nazionale ha giocato un ruolo fondamentale nel ritardo di coordinamento e dispiegamento delle forze degli altri Paesi. Contemporaneamente l’accordo bilaterale Mozambico-Ruanda risulta invece essere molto più efficace e il rapido dispiegamento dei ruandesi ha portato a successi eclatanti, in particolare con la riconquista di Mocimboa da Praia. Altre operazioni hanno, inoltre, permesso di dare inizio a una nuova fase di riabilitazione di alcune strade non utilizzate da mesi (Pemba – Quissanga) e di avviare le operazioni per un ritorno progressivo della popolazione locale nell’area rurale di Palma. Da non dimenticare, inoltre, la riabilitazione dell’infrastruttura telefonica e la stima dei danni che ancora continua, nella città di Mocimboa da Praia, rimasta in mano agli insorgenti per diversi mesi.

Ad oggi, nonostante i successi ruandesi- mozambicani, resta difficile quantificare la porzione di territorio totalmente recuperata e non più sotto il controllo degli insorgenti; inoltre, la coalizione non ha mai comunicato ufficialmente le cifre su eventuali perdite e feriti sofferte da parte loro. Da un punto di vista militare ora si apre una nuova fase dove le forze ruandesi-mozambicane dovranno coordinarsi con il resto delle forze SADC in campo in modo da continuare sulla striscia positiva di successi militari che hanno contraddistinto la prima metà del 2021; in questo senso potrebbero non mancare le difficoltà di coordinamento per una forza multinazionale che ora vede in campo molti eserciti.

Da un punto di vista di bisogni umanitari, una parte della popolazione sta progressivamente ritornando verso l’area rurale di Palma che sembra essere più sicura rispetto a pochi mesi fa; nonostante ciò, le operazioni militari potrebbero portare a nuovi movimenti di popolazione forzati per sfuggire ai combattimenti. Inoltre, solo nei prossimi mesi potrà essere più chiaro se le operazioni militari avranno l’obiettivo di assicurare il ritorno the colossi di gas e petrolio verso le zone di sfruttamento delle risorse per ricominciare l’implementazione dei progetti abbandonati in marzo, o se le operazioni militari avranno anche lo scopo di proteggere la popolazione civile da una nuova penetrazione terroristica.

Conseguenze di una nuova strategia: 25.000 nuovi dislocati interni a seguito degli attacchi di Maggi-Giugno

Trentanove attacchi in Maggio 2022 contro trentuno dell’anno precedente: questo il bilancio stilato all’inizio di giugno che mostra come la nuova strategia del non state armed group mozambicano affiliato all’ISIS dal 2021, sembra aver cancellato alcuni dei progressi militari che si erano registrati fra luglio 2021 e aprile 2022.

In effetti, dal luglio 2021, l’intervento ruandese sancito da un accodo col Mozambico aveva visto l’invio di circa tremila uomini per affiancare i circa quindici mila già presenti in Cabo Delgado, fra forze mozambicane, sud africane, dello Zimbabwe e del Botswana (coalizione SAMIM). Sicuramente, le forze ruandesi, meglio addestrate e equipaggiate, avevano avuto un impatto immediato nel nord est di Cabo Delgado, riuscendo ad assicurare rapidamente un cordone di sicurezza nella zona delle infrastrutture per la perforazione del futuro gasdotto gestito dalla TOTAL nella penisola di Afungi: ben presto pero, il Mozambico aveva fatto pressione sul Rwanda per avere una postura molto più offensiva e supportare il contingente SAMIM anche in altre operazioni, strategia vincente che aveva portato a riconquistare diverse porzioni di territorio, dove le Istituzioni erano scomparse da più di un anno, in particolare nei distretti di Macomia, Quissanga, Palma e Mocimboa da Praia.

Tuttavia, la grande attenzione dedicata all’area di Afungi, soprattutto per ragioni economiche e nel tentativo di esercitare pressioni affinché la TOTAL riprendesse la costruzione dell’infrastruttura del gasdotto, ha fatto si che le operazioni militari si concentrassero in particolare nella parte nord-est di Cabo Delgado, senza assicurare agli eserciti in campo e, soprattutto, alla popolazione locale, un retroterra sicuro nella parte centro sud di Cabo Delgado: dopo una seconda meta del 2021 che aveva fatto registrare diversi successi con catture di diversi elementi dello NSAG, in particolare di nazionalità mozambicana e tanzaniana, e lo smantellamento di diversi base operative, nel 2022 sembra evidente che il movimento di matrice islamica abbia ripensato ad una strategia basata meno sul confronto diretto con le forze di sicurezza e più a piccoli attacchi in diverse zone della Provincia, in modo da costringere i vari contingenti a intervenire rapidamente, provocando uno sfilacciamento progressivo in un territorio immenso da controllare.

Nella seconda meta del 2022, questi attacchi hanno portato le forze SAMIM e ruandesi ad essere efficaci nel contrastare la nuova tattica di guerriglia ma come spesso accade, gli effetti più nefasti di questa strategia li sta pagando una popolazione già provata dal prolungarsi del conflitto.

Marco Tamburro

Mozambico

Cabo Delgado Mozambico: dagli attacchi del 2017 alla crisi internazionale del 2020

Una crisi aperta che continua a essere volutamente sottovalutata

Marco Tamburro

Prima dell’ottobre 2017, la provincia settentrionale mozambicana di Cabo Delgado vantava la terza baia più grande del mondo che si trova nella capitale Pemba, che pullula di delfini, una vasta gamma di specie di pesci, coralli duri e molli. La sua lunga costa è caratterizzata da spiagge di sabbia bianca e da una moltitudine di isole che sono una destinazione perfetta per i turisti.

La scoperta di importanti riserve di gas nel bacino del Rovuma, al largo della costa di Cabo Delgado, di gas naturale liquido (GNL) – stimato come il quarto più grande del mondo – ha suscitato prospettive importanti per la popolazione. Tuttavia, i posti di lavoro promessi non si sono ancora materializzati ed un grande problema di redistribuzione della ricchezza permane tutt’oggi.

Nel frattempo, l’insurrezione ha interrotto diverse attività economica di sostentamento per la popolazione locale, oltre ai grandi progetti su GNL.

Gli investimenti GNL situati nella penisola di Afungi sono forse i contributi più significativi all’economia formale della regione, per un totale di 20 miliardi di dollari di investimenti in infrastrutture. Nel maggio 2021, la compagnia energetica francese Total ha dichiarato la forza maggiore sui suoi obblighi contrattuali per la lavorazione del GNL e ha sospeso le sue operazioni a causa della crescente insicurezza.

Questa drastica decisione è stata anche un significativo punto di pressione per il governo del Mozambico, e ha catalizzato un maggiore intervento militare nella regione. Poco dopo l’annuncio di TOTAL, il presidente Nyusi ha incontrato bilateralmente il presidente francese Macron a margine dell’Africa Financing Summit di maggio.

In ritardo, il governo ha cominciato a cercare il sostegno di altri paesi nella sua lotta contro l’insurrezione. Gli Stati Uniti e l’Unione Europea, attraverso l’ex potenza coloniale Portogallo, sono intervenuti per aiutare ad addestrare i soldati mozambicani. Nel giugno 2021, la Comunità per lo Sviluppo dell’Africa Meridionale (SADC) ha sancito il dispiegamento di una forza regionale per aiutare a reprimere l’insurrezione e ripristinare la stabilità nella regione colpita dal conflitto. Al momento il dispiegamento della SADC era ancora in corso. 

Ancor prima pero, le truppe ruandesi, che si trovano in Mozambico dal 9 luglio, sono guidate dal maggiore generale Innocent Kabandana. Innocent Kabandana è già stato negli Stati Uniti d’America (USA), in Canada, nella Repubblica Democratica del Congo e in Burundi. Dal 2020, ha comandato l’Accademia Militare del Ruanda.

Nel 2017 i primi attacchi furono qualificati come azioni criminali un po’ meglio organizzate rispetto agli sporadici furti o azioni violente che ogni tanto accadevano nell’estremo nord.

Con l’aumentare degli attacchi tra cui il primo davvero clamoroso a Mocimboa da Praia nell’ottobre 2017 accesero l’attenzione a livello internazionale sulla situazione a Cabo Delgado.

Secondo diverse analisi, l’insurrezione ha origini locali: i suoi membri sono principalmente cittadini mozambicani provenienti da Cabo Delgado – anche se ci sono segnalazioni aneddotiche di cittadini stranieri dalla vicina Tanzania. Gli autori sono per lo più civili. Ci sono prove anche sul reclutamento di bambini attraverso rapimenti durante gli attacchi.  Gli insorti hanno anche rapito donne e giovani ragazze, che sono poi costrette a vivere con loro come mogli o concubine. La maggior parte dei crimini perpetrati dagli insorti sono raccapriccianti, comprese le decapitazioni.

Interi villaggi sono diventati città fantasma. Mocímboa da Praia, è stata fino a poco tempo fa disabitata per quasi due anni da quando gli attacchi degli insorti nel 2019 hanno cacciato la popolazione locale. Le forze governative sono state in grado di riprendere la città solo all’inizio di agosto 2021 con l’aiuto delle forze ruandesi. La maggior parte delle persone che sono fuggite da Mocímboa da Praia e dalle città che sono state invase dagli insorti hanno cercato rifugio a Pemba, Montepuez, Mueda e altre città, con solo i vestiti sulle spalle e quel poco che riescono a portare nel loro viaggio in barca, veicolo e a piedi.

Mentre le violenze perpetrate dall’Al Shabaab mozambicana superano quelle di altri attori in quantità e gravità, è importante far luce anche sugli abusi perpetrati da altri attori. Un rapporto di Amnesty International pubblicato nel marzo 2021 ha articolato la brutalità sperimentata dai civili per mano di compagnie militari private come la Dyck Advisory Group (DAG) e le forze governative mozambicane. 

Questa ondata di insurrezione ha provocato un esodo di civili dalle regioni colpite dal conflitto. Ci sono ora circa 800.000 sfollati interni (IDP) e questo ha messo alla prova l’abilità e la capacità del governo di fornire assistenza umanitaria ai civili che fuggono dalle aree sotto attacco.  L’insurrezione ha anche spinto la gente a lasciare Cabo Delgado nelle province vicine. Le province di Niassa, Nampula e Zambezia sono particolarmente colpite; ovviamente, il supporto delle Nazioni Unite e delle ONG non manca, anche se, a livello di disponibilità di fondi, altre crisi più note e anche le necessità di risposta al covid-19 nei Paesi ‘’donatori’’, porta ancora oggi ad una grande mancanza di fondi.

La guerra a Cabo Delgado è ormai al quarto anno. La sofferenza umana è stata incalcolabile e la comunità internazionale è stata ripetutamente scioccata da rapporti di estrema brutalità.

La condizione dei civili coinvolti nella violenza a Cabo Delgado è l’obiettivo e l’interesse centrale di questo rapporto. Dall’inizio degli attacchi nella città distretto di Mocímboa da Praia il 5 ottobre 2017, circa 2800 persone sono morte e quasi 800 000 sono state sfollate dalle loro case, città e villaggi.

Nonostante le operazioni militari siano ad oggi in corso, sembra che l’obiettivo principale sia, innanzitutto, riportare la TOTAL a riaprire il progetto per lo sfruttamento del NL, piuttosto che proteggere i civili da ulteriori attacchi.

Nel 2021, anche con l’attenuazione degli effetti del covid-19 sulle agende politiche degli stati occidentali oltre che sulle casse statali, si spera che la comunità internazionale faccia fronte comune su una risoluzione pacifica del conflitto e su una maggior richiesto al Mozambico rispetto ad investimenti per la popolazione locale e maggior rispetto dei diritti fondamentali.

Marco Tamburro 

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Cabo Delgado, Mozambico: Instabilità e ricchezza

Uno spaccato di globalizzazione

Marco Tamburro

In Mozambico un gruppo estremista si macchia, gia dal 2017, di atroci delitti, decapitazioni e furti contro la popolazione locale, mentre, a pochi chilometri, uno dei giacimenti piu preziosi di gas del Mondo viene minacciato da questo fenomeno che nessuno sembra poter arrestare

Gli elementi per una nuova crisi internazionale ci sono tutti: Democrazie fragili che non riescono a trovare un’intesa sul da farsi (la SADC[1]), un giacimento di gas che potrebbe far balzare il Mozambico fra i primi tre esportatori di gas al Mondo da qui al 2025, un’agenda politica ancora alle prese con le conseguenze del covid-19 e un’emergenza umanitaria che ha gia’ portato piu di settecento mila persona ad una delocalizzazione forzata verso aree piu sicure nel nord del Mozambico.

Il Mozambico si ritrova di fronte una nuova potenziale catastrofe umanitaria dopo esser stato colpito da due cicloni devastanti (IDAI e Kenneth) nel Marzo-Aprile 2019: dal 2014 in poi le potenzialita del gas nel nord del Mozambico avevano fatto espoldere un entusiasmo incredibile e avevano fatto sperare il partito di maggioranza storico (FRELIMO) di poter essere un esempio di Paese africano che sarebbe potuto usicre da una situazione di poverta cronica; nel mentre, la TOTAL, colosso francese, si affermava come leader per lo sfruttamento del giacimento costiero e, piu a sud, l’ENI definiva il suo ruolo di capofila insieme ad EXXON per lo sfruttamento di un secondo giacimento in mare aperto. Il paradosso ha voulto che proprio decenni di disinteresse nei confronti di questa provincia mozambicana, Cabo Delgado, abbia portato ad una facile penetrazione, probabilmente di ispirazione islamista, che si e’ combinata con una rabbia sociale e una poverta di opportunita per i giovani: cio ha portato gli auto proclamati Shabaab (senza nessun legame apparente con Al-Shabaab somalo) a perpetrare massacri e sabotaggi a danno della poplazione locale e della polizia, fino a portare all’interruzione del progetto di sfruttametno del gas da parte di TOTAL, che non valuta il contesto sicuro, almeno finche il governo non portera avanti azioni concrete per riportare la sicurezza nel nord ad un livello accettabile.

L’attacco del 25 Marzo nella citta di Palma ha fatto luce su tutte le fragilita delle forze armate mozambicane che non riescono a conseguire risultati soddisfacenti contro un movimento che cresce in mezzi e uomini; avendo accesso ad alcuni giacimenti illegali e commerciando in armi, droghe e essere umani, Shabaab riesce sempre di piu ad avere un potere economico in grado di sostenere i suoi militanti locali, oltre a pubblicizzare un non ben chiaro legame con l’ISIS a cui ha ufficialmente dichiarato l’affilizaizone nel 2018.

Ovviamente diversi Stati occidentali seguono da vicino la situazione, ma i fondi per l’emergenza umanitaria, eventuali summit internazionali ed altri sostegni non sono ancora all’ordine del giorno; gli stati occidentali sono ancora, evidentemente, troppo impegnati a risolvere ‘’l’effetto covid’’, e probabilmente delle vere azioni concrete si vedranno solo verso la fine di quest’anno.


[1] La Comunità per lo sviluppo dell’Africa meridionale (SADC) è una comunità economica regionale che comprende 16 Stati membri: Angola, Botswana, Comore, Repubblica Democratica del Congo, Eswatini, Lesotho, Madagascar, Malawi, Mauritius, Mozambico, Namibia, Seychelles, Sudafrica, Tanzania, Zambia e Zimbabwe.

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Cabo Delgado, Mozambico: Fondamentalismo per criminali e disperati

NDR “Analizzando l’evoluzione degli eventi
che hanno portato in cinque anni, il Mozambico da paese dimenticato a territorio di conquista per multinazionali, capitani di ventura e fondamentalismi religiosi mai sopiti, viene facile richiamare alla memoria un pensiero di Primo Levi:

“Tutti coloro che dimenticano il loro passato, sono condannatia riviverlo”

Siamo davvero destinati “all’eterno ritorno” al non imparare dai nostri errori, al dover rivivere una stagione del terrorismo che con sogni e indottrinamento fa proseliti nelle classi meno abbienti di paesi una volta dimenticati ma ora prossimi alla ribalta per la quale non li abbiamo appositamente attrezzati”

 

Cabo Delgado, Mozambico: Una situazione gestita con
occhi miopi da mani malferme


Marco Tamburro


Diverse teorie contrastanti cercano di spiegare il fenomeno del terrorismo in Mozambico, che predica estremismo islamico ma annovera tra le sue file soprattutto criminali e disperati Il termine esatto che viene utilizzato per designare quelle organizzazioni che agiscono militarmente al di fuori del controllo di uno Stato sovrano e’ ‘’non state armed groups’’ (NSAG). Il termine viene utilizzato per evitare qualsiasi legame, a livello di vocabolario, con religioni, gruppi etnici o ideologici che potrebbero portare ad equivoci o ad esacerbare tensioni socio-religiose ancora peggiori. Anche in Mozambico, lo NSAG denominato Shabaab, agisce come un Gruppo terrorista moderno, mescolando attività criminali con proclami di estremismo religioso.

Le origini:

nel 2017, in Mozambico, si intensificano gli attacchi ‘’al macete’’ che mirano a razzie e omicidi nella parte più a nord di Cabo Delgado, nella zona fra Palma e Nangate; questi gruppi agiscono di solito con 6-7 persone e con attacchi rapidi verso piccoli villaggi lontani dai posti di polizia; nel 2018 gli attacchi sono sempre più strutturati ed iniziano ad apparire le armi da fuoco; durante lo stesso anno, Il WFP che si occupa delle distribuzione alimentari nelle zone più disagiate si organizza con scorte militari per proteggere lo staff e i camion carichi. Il Governo, intanto, cerca di stringere accordi con compagnie militari private per tentare di supportare le forze armate nazionali con formazioni, ricognizioni congiunte, ricerca informazioni e investigazioni. Qui, si alternano prima un consorzio cino-americano che fa capo ad Erick Prince (lo stesso della Black water), successivamente la Wagner (para-militari russi, gli stessi probabilmente intervenuti in Crimea, Ucraina), poi e’ la volta della Djick sud-africana che avra’ un ruolo di primo piano nell’evacuazione di occidentali e popolazione locale durante l’attacco di Palma del Marzo 2021. In realta, queste organizzazioni hanno sempre avuto contratti di breve durata e senza un impiego massiccio di uomini sul terreno, limitandosi al ruolo di ‘’advisor’’ dell’esercito mozambicano.

Retroterra locale:

incredibilmente la terra della rivoulzione, Cabo Delgado, quella che aveva visto prima il movimento di liberazione nazionale opporsi ai portoghesi, poi il confronto fra Frelimo e Renamo fino al 1992, e’ stata progressivamente dimenticata. Per un Paese che ha cercato di concentrare i propri sforzi di sviluppo in capitale, che vedeva strade sterrate all’uscita di Maputo solo fino al 2008, riuscire anche ad occuparsi dello sviluppo del resto del Paese sembrava un’impresa impossibile. Cosi si e’ confermato infatti, fino alle geoispezioni che hanno portato a riconoscere Cabo Delgado come la provincia ‘’dorata’’ per il
Mozambico.

Da diversi studi della Banca Mondiale emerge, comunque, che anche durante il periodo di grande fiducia nell’economia mozambicana (tra il 2008 e il 2016 fino al 15% di crescita del PIL su base annua), mancava un aspetto fondamentale, ossia la redistribuzione della ricchezza verso le fasce più povere della popolazione.

La frustrazione dunque e’ cresciuta sempre di piu dentro l’anima di una popolazione che sentiva parlare di miliardi di euro da ricavare grazie alle risorse naturali della loro terra, e che non vedevano nessun cambiamento nel tempo, salvo trovarsi a volte in situazioni di dislocazione forzata per far spazio ai primi impianti di controllo del progetto per il GNL.

Questa situazione si e’ dimostrata un terreno molto fertile per una reazione che, alcuni, considerano totalmente staccata dalla matrice islamica e che avrebbe come scopo la reazione violenta per bloccare progetti iniqui e con i quali si arricchirebbero solo in pochi.

Risorse:

gli Shabaab controllano diverse porzioni del territorio di Cabo Delgado; al di la delle smentite del governo mozambicano, le forze armate hanno avuto molte difficolta’ a recuperare diversi centri abitati negli utlimi due anni (Macomia, Palma, Mocimboa da praia). Gli uomini di Shabaab sono motivati ma soprattutto ben ricompensati:

stipendi mensili e premi per vittime ‘’illustri’’ (polizia, miltari ed eventuali occidentali) sono i trattamenti standard che ricordano da vicino regole e amministrazione dell’ISIS siriano.

Diverse miniere illegali si trovano nei territori dell’estremo nord del Mozambico, senza trascurare il mercato nero e commercio di ogni tipo di bene illegale che viene alimentato ai confini con la Tanzania.
Le rotte della droga, soprattutto eroina, portano spesso piccole imbarcazioni che provengono dall’oceano indiano a sbarcare in Mozambico come nuova rotta per i traffici. Ancora una votla, quindi, i mezzi economici sono la chiave per
alimentare le azioni terroristiche e riuscire a foraggiare i disperati che militano fra le loro fila che finalmente possono dirsi di aver trovato uno scopo e uno stipendio.

Legami internazionali:

secondo alcuni, forse tra il 2016 e il 2017, alcuni musulmani mozambicani hanno
ricevuto la visita di formatori, esperti di azioni terroristiche, proveniente dalla ‘’costa swahili dell’estremismo islamico’’. Potrebbero esser stati kenyoti della zona di Mombasa o somali legati ad Al-Shabaab: comunque, il movimento che si e’ sviluppato nel nord del Mozambico ha ricevuto un supporto dall’esterno almeno nell’ideologia e nella strategia: ancora una volta, senza un retro terra sociale di poverta’ e mancanza di educazione basica, i divulgatori dell’odio hanno trovato una buona base per ingrandire rapidamente le fila del loro esercito.

Nel 2019 arriva la dichiarazione di affiliazione degli Shabaab all’ISIS, che dalla sua newsletter fa sapere che i mozambicani fanno ufficialmente parte della loro battaglia contro l’occidente; questo legame sembra essere pero’ più che altro una dichiarazione di solidarieta’ e bene-stare per l’utilizzo di sigle, simboli e bandiere. Veri e propri legami con l’ISIS non sono stati riscontrati a livello locale.

Altre teorie non verificate parlano anche di legami e risorse messe a disposizioni da parte di entità statali che sarebbero interessate a bloccare il progetto di GNL della TOTAL.

rivoecon

Al passo con i tempi

Lanfranco Caiola

La rivoluzione industriale segnò il punto d’inizio dello scollamento tra i ritmi della natura e quelli della società civile. L’avvento delle macchine per la produzione in serie porterà un cambiamento radicale nelle abitudini e nelle attività umane, cambiamenti che rappresentano oggi uno dei più potenti fattori di trasformazione dell’ambiente naturale.

In questi duecento anni il divario tra i ritmi della terra e quelli dell’uomo, hanno raggiunto una dimensione facilmente percepibile. Lo sviluppo tecnologico ed i suoi effetti sull’ambiente naturale nel primo e nel secondo mondo seguono ritmi, molto più veloci e spesso forzati, di quelli caratteristici degli ecosistemi naturali. Si può affermare che, i tempi geologici di evoluzione della terra e quelli biologici di evoluzione della natura a noi più vicini, risultano sempre più incompatibili con quelli dell’evoluzione tecnico-scientifica del genere umano.

Il divario nella scala dei tempi e lo sviluppo di tecnologie e prodotti ad alto potenziale inquinante, sono fattori di un modello di crescita orientato più al consumo che all’uso sostenibile delle risorse naturali. Questo tipo di impostazione culturale, ha generato un paradigma che determina oggi un degrado generalizzato delle componenti ecosistemiche e che comincia ad assumere caratteristiche di irreversibilità. L’economia classica e l’avvento del liberismo ci avevano spinto a credere che la terra, fosse un contenitore con infinite risorse e dall’illimitata capacità portante. Questa credenza ha impedito per anni un’analisi oggettiva delle risorse e delle capacità della terra.

Alla metà del secolo scorso un approccio più oggettivo alla realtà ha mostrato che il pianeta terra è in realtà un sistema chiuso, di dimensioni finite, vincolato a limiti biofisici, che non consentono una crescita infinita, né tantomeno un’immissione di rifiuti ed inquinanti oltre la sua capacità portante.

Responsabilità sociale e complessità ecologica

L’apprendere delle conseguenze nefaste delle attività dell’uomo sul sistema terra, ha favorito alla fine del novecento la nascita di un nuovo approccio allo sviluppo, incentrato non più sulla produzione ma sulla responsabilità sociale della stessa. Un approccio morale all’economia rappresenta il nuovo punto di partenza, per ridisegnare il progresso all’interno di un sistema che, coinvolga anche l’uomo e le sue attività.

Modelli etici di comportamento e norme di condotta, stanno caratterizzando un approccio che tenga presente standard di sostenibilità ambientale, economica e sociale.

Standard etici di comportamento per le imprese quali:

  • Legittimità orale
  • Equità ed uguaglianza
  • Tutela della persona
  • Diligenza
  • Trasparenza
  • Onestà
  • Riservatezza
  • Imparzialità
  • Tutela ambientale
  • Protezione della salute

rappresentano l’ossatura su cui si ipotizza dovremmo costruire la nostra nuova economia, coadiuvati da sistemi di controllo e monitoraggio volti più ad istruire che ad ammendare. In questo modello di produzione chi si trova nella posizione di decidere il futuro dell’attività è chiamato all’osservanza di doveri fiduciari nei riguardi degli stakeholder. La responsabilità sociale non consiste solo nel rispetto degli obblighi giuridici ma anche nell’investire in capitale umano, nell’ambiente e nei rapporti con le altre parti interessate.

Approccio inclusivo per uno sviluppo dinamico

Il concetto della terra come sistema chiuso ha plasmato non solo l’idea di uno sviluppo universalmente responsabile, ma anche di un approccio allo studio dei fenomeni naturali in termini di connessioni e relazioni all’interno di un contesto con regole ben precise. il concetto di pensiero sistemico che ne scaturì (F. Capra, 1997) può essere definito come: “un complesso di componenti interagenti” (von Bertalanffy, 1969).

Il comportamento di un sistema, il suo utilizzo e sfruttamento, non possono esser slegati dalla realtà con cui sono interconnessi. I risultati sono prevedibili e si può affermare che il sistema terra non può essere compreso se viene considerato come una semplice somma delle parti che lo costituisce tralasciando le  proprietà sistemiche che lo intereconnettono.

Lo Sviluppo Sostenibile

L’ integrazione delle discipline socio-economiche con quelle scientifiche, ha generato le basi della Teoria dello Sviluppo Sostenibile (E. Tiezzi 1999).

Grazie ad un solido background teorico questo approccio sistemico e multidisciplinare, consente la valutazione quantitativa della sostenibilità, dei processi produttivi e delle politiche di produzione e sfruttamento.

Attraverso l’analisi dell’utilizzo delle risorse, in relazione all’utilizzo dell’energia utilizzata e prodotta per la realizzazione di un processo, rende possibile calcolare la sostenibilità dello stesso e il suo impatto sul sistema. Utilizzando il “valore energetico” come unità di riferimento, è possibile includere nella valutazione il capitale naturale e quello umano, che in altri approcci rischia di essere escluso. L’integrazione di tali differenti approcci metodologici dimostra come sia possibile pervenire ad una valutazione ambientale che sia in grado di orientare le scelte di pianificazione e l’utilizzo delle risorse naturali (M. Ruth, 1993).

Il capitale naturale rappresenta oggi, il limite all’interno del quale modellare il nostro progresso. Le politiche di viluppo, non potranno più appellarsi esclusivamente, al carattere propulsivo delle tecnologie innovative e al carattere auto-equilibrante del mercato. Questa nuova visione, richiede lo sviluppo di modelli socioeconomici, con alla base
un approccio interdisciplinare che, consenta una pianificazione più precisa e attenta alle dinamiche del Sistema Terra e che orienti, il decisore politico, verso una visione integrata di aspetti economici, ecologici e sociali, allo scopo di realizzare una pianificazione sistemica e non meramente speculativa.

Questa forma mentis ha portato allo sviluppo di modelli socio-economici che presuppongono, l’affermazione di un rapporto stretto tra economia ed ecologia, che oggi si concretizza nella moderna teoria economica dell’Economia Ecologica(R. Costanza, 1997). La complessità delle metodologie e le difficili scelte che derivano da quest’approccio, sembrano però non indicare solo la via ad uno sviluppo sostenibile, ma anche la direzione verso cui dovremmo indirizzare, uno sviluppo tecnologico, che ci permetta di ricongiungerci con il sistema terra e tornate al passo con i suoi tempi.